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IL GIALLO MILANESE DI PAOLO BRERA
Noir storici, contemporanei e la traduzione e l’adattamento di racconti pressoché sconosciuti di alcuni tra i più grandi scrittori di sempre
Pubblicato
6 anni fasu
Paolo è il figlio di Gianni Brera, il più famoso giornalista sportivo italiano di sempre, scomparso da 25 anni. E del rapporto col padre ci dice che…
Di Gigi Montero
MILANO- Sforna libri ed ebook ad un ritmo incalzante. Gli ultimi sono quelli targati Algama: la serie di gialli del colonnello De Valera (Il veleno degli altri; Il denaro degli altri e Il male degli altri) e La spia del Risorgimento, scritto con Andrea Carlo Cappi sullo spionaggio ai tempi di Garibaldi. Ma c’è anche una serie di racconti davvero particolari nella serie “I racconti di Brera”, che traduce da tutto il mondo. Lui è Paolo Brera, giornalista di lungo corso e scrittore milanese.
I LIBRI DI PAOLO BRERA:
Di cosa trattano i Racconti di Brera?
«L’idea di base è quella di offrire al pubblico più vasto un piacevole accesso ai grandi autori europei del passato, essenzialmente dell’Ottocento e del Novecento. Non solo nelle letterature più conosciute, ma anche in quelle secondarie. Racconti e non romanzi, perché i romanzi spesso sono già disponibili in buone traduzioni e poi, per dirla tutta, per leggerli ci vuole un bel po’ di tempo che la gente non ha più. Quali racconti? Quelli più popolari: avventure, polizieschi, horror. Sì, per fare un esempio, di Tolstoj Il prigioniero del Caucaso, che è un racconto d’azione ma resta un racconto di Tolstoj, non so se mi spiego. O di Caragiale La locanda di Mânjoală, che è un horror. Caragiale è un grande autore rumeno. La traduzione dev’essere particolarmente attenta: non per la fedeltà filologica, ma per la qualità del testo di arrivo, che deve essere godibile e scorrevole. Qui mi ha aiutato la mia esperienza di scrittore e anche quella di giornalista».
Ma sei sempre tu a tradurre?
«Eh sì. Questa era una delle attrattive del progetto, per me. L’idea di prendere un racconto in cèco o in bulgaro e di arrivare a produrne una versione in italiano mi affascinava. Nella mia vita ho studiato e parlato diverse lingue, e le lingue europee si assomigliano, perciò anche quelle che non ho studiato e non parlo spesso mi sono in qualche modo accessibili. Aggiungiamo la sterminata enciclopedia che è Internet, e voilà, ho potuto lavorare (finora) con quindici lingue. Più l’italiano, ovviamente. In certi casi ho fatto una fatica improba, due giorni su una singola pagina di Creangă, ma tanto il lettore quando ha in mano il racconto scritto in italiano non se ne accorge e se il racconto è bello, si diverte lo stesso. Mors mea, vita tua».
Parliamo della serie del colonnello De Valera. Come nasce?
«Nasce dopo il primo giallo che ho scritto e pubblicato. Che mi ha ossessionato per tre anni. Era una storia di veleno (infatti si intitolaIl veleno degli altri) e non riuscivo mai ad andare avanti, perché avevo bisogno di informazioni precise sui veleni e uno non può mica andare in giro a domandare, c’è caso che la gente pensi che le informazioni ti servano per altro, non per scrivere un giallo. Alla fine però ho superato lo scoglio e l’ho scritto. Il Veleno è uno studio su Tea Ferrari, una donna giovane e intelligente che vuole disfarsi di una datrice di lavoro odiosa (ma proprio odiosa, neh!). Il colonnello Valerio Maffi De Valera compare come un personaggio secondario. Ma mi è risultato molto simpatico e allora quando mi ha pregato di fargli fare un po’ di carriera io l’ho accontentato infilandolo nelDenaro degli altri, un fosca storia italo-svizzera. E siccome a quel punto ormai gli voglio molto bene, gli faccio trovare una compagna deliziosa, una ispettrice svizzera di origine turca che è meno bella di Tea ma perfino più interessante. Della polizia cantonale ticinese».
Quest’anno sono venticinque anni dalla scomparsa di tuo padre. Uscirà qualcosa di suo?
«Poco ma sicuro».
Qual è il libro di Gianni Brera che ti è piaciuto di più?
«La ballata del pugile suonato».
Per che squadra tifava?
«Per il Genoa. Ma erano altri tempi, l’amore “tifico” non gli impediva un approccio critico anche alla sua squadra del cuore».
Quando hai deciso di fare il giornalista e lo scrittore che consigli ti ha dato?
«Abbiamo parlato pochissimo di questo. Praticamente mai, anzi. Una volta ha letto un mio articolo di tema economico (è il mio argomento principale, e anche quello su cui come ex assistente della Bocconi mi pare di avere una certa competenza). E mi ha detto che dovevo essere un po’ brillante, “farmi leggere”. Io ho obiettato che le percentuali sono percentuali, e che non c’è niente di brillante nel doverle citare con l’approssimazione alla prima cifra dopo la virgola… ma lui mi ha risposto che bisognava egualmente trovare il modo. Non mi aveva convinto, lì per lì, ma adesso so che aveva ragione. Per quel che riguarda la mia opera di scrittore, dopo avermi criticato per la mia passione per la fantascienza è riuscito infine a leggere una novelette, Aleydis e Hireann, che era il mio “ri-esordio” nel genere dopo i miei exploit adolescenziali. E gli è piaciuta! Mi ha anche proposto di scrivere insieme un racconto – appunto di fantascienza – di cui aveva l’idea centrale e quasi tutto l’intreccio, che mi ha esposto lì per lì. Io l’ho scritto, il racconto, ma solo dopo la sua morte, purtroppo. Si chiama Maria Teresa torna da Erodamaflart».
I LIBRI DI PAOLO BRERA:
Il settimanale che dice la verità. Dal 1969 in edicola.

Libri
LA VERITA’ SULLE BESTIE DI SATANA E’ UN’ALTRA
Roberto Ottonelli ha indagato a lungo sui ragazzi amanti del metal finiti dentro per omicidio. E dopo anni ha scritto in un romanzo come si svolsero davvero, secondo lui, i fatti
Pubblicato
6 anni fasu
2017/09/09
Roberto Ottonelli ha indagato a lungo sui ragazzi amanti del metal finiti dentro per omicidio. E dopo anni ha scritto in un romanzo come si svolsero davvero, secondo lui, i fatti
MILANO- Diversi anni fa Cronaca Vera incontrò Roberto Ottonelli. Il giovane ci portò a casa della madre di Paolo Leoni, considerato il leader delle Bestie di Satana. Scoprimmo così che molte cose dette e scritte non corrispondevano alla realtà. All’epoca Roberto stava scrivendo un romanzo, che ora, dopo molte rivisitazioni, è stato pubblicato in ebook da Delos. All’interno Roberto dice di ispirarsi liberamente alla vicenda della setta. In realtà ha raccontato in parte come secondo lui andarono veramente le cose. Siamo tornati a incontrarlo.
Questo romanzo parte da molto lontano. Esattamente dal 2008. Come ti sei imbattuto nella vicenda delle Bestie di Satana?
«Sono rimasto molto colpito in quanto Paolo “Ozzy” Leoni e Chiara Marino abitavano a due isolati da casa mia, in quartiere Lavagna a Corsico. In particolare Ozzy era stato in classe con la mia ex moglie, dalla quale proprio in quel periodo mi stavo separando, e lavorava alla Metro, dove andavo sempre da bambino con mio padre».
Il tuo romanzo ha subito delle variazioni. Cos’è cambiato nel tempo?
«All’inizio lo avevo scritto allo scopo di colpire il lettore come era accaduto a me, prendendo spunto dalle cronache che non parlavano d’altro. Per vie traverse sono riuscito a contattare Paolo in carcere e gli ho chiesto se gli andasse di scrivere una prefazione nella quale dire ciò che riteneva più opportuno. Mi ha risposto che si proclamava innocente e mi ha rimandato al suo avvocato. Ho letto migliaia di pagine di atti, ho incontrato ragazzi che li frequentavano, e mi sono fatto un’idea molto diversa. Poi ho conosciuto lo scrittore Franco Forte, che mi ha aperto gli occhi su numerosi aspetti che prima mi sfuggivano. Ho così riportato tutto in prima persona, dal punto di vista dei diversi protagonisti, raccontando per ognuno le sue vicende umane e motivazioni. Mi sono liberamente ispirato alla storia inserendo personaggi di fantasia e ho cercato di non scendere nel macabro sugli omicidi reali per un doveroso rispetto verso le vittime che a mio parere non vanno mai dimenticate».
Convinto dell’innocenza del loro leader Paolo Leoni, già in passato aveva documentato al nostro settimanale particolari inediti
Sei convinto dell’innocenza di Paolo Leoni. La Corte di Strasburgo ha respinto il suo ricorso. Credi che siano emersi elementi che possano portare ad una revisione del processo?
«A termini di legge no. L’avvocato mi ha infatti spiegato che per arrivare a una revisione servono elementi nuovi, non emersi durante i diversi gradi di giudizio. Il fatto è che si è preso per buono ciò che hanno raccontato i “pentiti”, pluriomicida rei confessi, che hanno preferito scaricare su altri le loro responsabilità».
Cos’accadde davvero, secondo te, nella vicenda delle Bestie di Satana?
«Più che la mia opinione, penso possa essere esemplificativo ciò che Mario Maccione, uno degli accusatori di Leoni insieme a Volpe e Guerrieri, disse in un’intervista al Giornale del 21/6/2008, contraddicendo quanto sostenuto da lui stesso durante il processo (dal quale sembra dissociarsi, dimenticando di essere stato uno dei protagonisti principali): “Al processo hanno detto tante fesserie. La realtà è molto più cruda. Chiara aveva una polizza sulla vita assai alta. Soldi, solo soldi: ecco il movente”. Quindi niente satanismo o chissà quale sacrificio di cui Maccione stesso ha parlato davanti ai giudici. Oltretutto che il movente dell’omicidio fossero i soldi è, a mio parere, insensato. Uccidendo l’unica beneficiaria di un rimborso assicurativo conseguente a un incidente (non di una polizza sulla vita, ma poco cambierebbe), come ne avrebbero potuto godere? Nel libro ritengo di aver ricostruito come si sono svolti i fatti. Non si può dimenticare come anche Volpe abbia dichiarato di aver mentito attribuendo a sé, Paolo Leoni e Nicola Sapone l’omicidio di Andrea Ballarin, mentre durante un interrogatorio del 18/4/2008 presso il Tribunale di Monza ebbe a dire: “Mi sono attribuito la responsabilità della morte del Ballarin, perché mi sentivo in colpa della sua morte, essendo stato il Ballarin mio compagno di scuola. I dettagli che ho riferito circa le modalità di esecuzione dell’omicidio, sono dettagli da me inventati ed ho preso a riferimento circostanze e cose che io sapevo essere in possesso o comunque nella disponibilità sia del Sapone che del Leoni. Ad esempio, mi riferisco al machete, all’etere, al nastro da idraulico, ecc”.
Ecco, a mio parere, un pentito che ammette candidamente di aver mentito accusando falsamente se stesso e altri di un omicidio, può essere difficilmente creduto per altre accuse».
Hai avuto modo di sentire Leoni recentemente?
«Sì, ho scritto a Paolo a fine luglio raccontandogli delle prime reazioni dei lettori al libro che non potevo che dedicargli. Per un certo periodo abbiamo avuto delle divergenze d’opinione circa la sua difesa e ho preferito farmi da parte perché non volevo essere d’intralcio. In seguito ho capito che forse nella sua posizione mi sarei comportato allo stesso modo. Magari io e Paolo non saremmo mai stati amici nella vita. Lui era un metallaro che beveva quantità industriali di birra, fumava canne, è capitato in qualche rissa e penso abbia incontrato le persone sbagliate. Io sono astemio, non fumo, ho svolto volontariato per anni e non sono metallaro. Questo non toglie che non penso meritasse la pena che sta scontando».
A breve i pentiti del gruppo dovrebbero uscire tutti di prigione. Proverai a contattarli per capire come andarono realmente le cose?
«Non ho mai provato a contattare i “pentiti” per il semplice motivo che non li ritengo tali. D’altra parte Volpe stesso, in una intercettazione registrata mentre parlava col padre in cella il 18/2/2004 disse: “Eh, io, pa’, se la gente mi infogna io tiro dentro un sacco di gente, mi invento nomi a palla, dico: c’eri anche tu, eh, alla fine posso dire così… e allora a quel punto credono più a me che a lui”».
Gigi Montero
IL LIBRO:

Il criminologo Romolo Giovanni Capuano smitizza in un volume tantissimi luoghi comuni, mettendo nel mirino credenze che ritenevamo valide e che invece tali non sono
ROMA
Si chiama “Delitti – raptus, follie e misteri. Dalla cronaca alla realtà” ed è edito da C1V Edizioni di Roma. Lo ha scritto il sociologo, criminologo e traduttore Romolo Giovanni Capuano, 48 anni, già autore di volumi dai titoli spiazzanti come Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia (2007), 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo (2013), 101 falsi miti sulla criminalità (2016). Stavolta Capuano mette nel mirino alcune leggende che fino ad ora credevamo realtà. O quasi. Ad esempio, sulla malattia mentale: «Varie ricerche empiriche e rassegne di studi dimostrano, con un buon grado di certezza, che la stragrande maggioranza dei soggetti con disturbi mentali non commette reati né atti violenti. Non è vero, dunque, che i malati di mente commettano meno delitti della popolazione in generale: è vero che le proporzioni si equivalgono».
IL RAPTUS
Anche il raptus omicida, così come lo intendiamo, sarebbe un mito. Dice Capuano a Cronaca Vera: «Il termine non ha alcuno status scientifico e non è riconosciuto dal Codice Penale. Per “raptus omicida”, ad esempio, si intende un omicidio che si verifica apparentemente come un fulmine a ciel sereno, compiuto da qualcuno il cui comportamento precedente era ritenuto da chi lo conosceva “normale” e non lasciava presagire alcun disturbo mentale e che, dopo la commissione del reato, ritorna a essere una persona del tutto “normale”, forse confusa e talvolta stupita quanto gli altri per ciò che è accaduto. In realtà, se si va a indagare, si capisce che l’evento spesso non si verifica come un fulmine a ciel sereno, il responsabile spesso aveva altri problemi ed è solo la fretta di confezionare l’articolo a indurre il giornalista a parlare di “raptus”». Capuano mette in guardia su maghi, indovini, cartomanti e in chi crede nel diavolo, personaggi che spesso entrano nella cronaca nera: «Sembra addirittura che sia in aumento la richiesta di esorcisti nel nostro paese, a testimonianza di una domanda crescente di soprannaturale, anche per risolvere problemi di salute, finanziari e di altro tipo».
Ingannati dalla leggenda dell’infallibilità dei profiler, arriviamo a non riconoscere più la realtà. Non ci credete? Leggete l’intervista
RAPINE CON L’IPNOSI
Chi di noi non ha mai sentito parlare delle rapine con ipnosi? Ma quanto c’è di vero? Spiega lo studioso: «L’ipnosi naturalmente esiste e trova tutta una serie di applicazioni. Altra cosa sono i miti sull’ipnosi, come ad esempio l’idea che induca uno stato alterato di coscienza, che annulli la volontà individuale, che è possibile ipnotizzare qualcuno contro la propria volontà o costringerlo ad agire contro i propri principi morali. È poi assodato che l’ipnosi non è un fenomeno paranormale o soprannaturale che mette in comunicazione l’individuo con realtà “altre”; né è vero che nello stato ipnotico riaffiorino ricordi del passato o, addirittura, di vite precedenti. Ciò che succede nelle cosiddette “ipnorapine” è che l’autore utilizza tecniche atte a indurre uno stato di confusione tramite metodi di suggestione e distrazione. Spesso si tratta delle stesse tecniche adoperate dai maghi da palcoscenico. Non si tratta di ipnosi nel senso proprio del termine, ma di tecniche che hanno comunque un esito psicologico e che spesso sono “spiegate” dalle vittime come tecniche ipnotiche».
RAPINE CON IL GAS NARCOTIZZANTE
Ma non finisce qui: le rapine con il gas narcotizzante sarebbero una mera leggenda: «Come hanno osservato molto anestesisti, questo genere di rapina appare molto improbabile dal punto di vista tecnico. I gas anestetici conosciuti sono irritanti e hanno un odore sgradevole che tende a permanere nell’ambiente per qualche tempo. Il loro uso per scopi criminali presenta, inoltre, troppi inconvenienti. Con uno spray, infatti, non si riuscirebbe a ottenere una sufficiente concentrazione dell’anestetico nel sangue tanto è vero che, negli ospedali, i gas anestetici sono somministrati mediante iniezioni endovenose o attraverso un tubo messo nella trachea, dopo una serie di indagini mirate a valutare la tollerabilità del paziente alla sostanza da somministrare. Nelle storie dei “narcorapinatori”, invece, la somministrazione è eseguita in assenza di qualsiasi precauzione, ma la vittima si risveglia sempre al mattino esibendo sintomi superficiali e aspecifici. Di sicuro, le cronache non riportano alcun ricovero in ospedale delle vittime a seguito delle aggressioni tramite spray, né danni gravi di alcun genere né tantomeno decessi. Appare improbabile anche che i ladri possano saturare un intero ambiente. Ciò richiederebbe troppo tempo e l’uso ingombrante di maschere antigas e altri attrezzi. La garza imbevuta di cloroformio sarebbe una possibilità, ma i derubati lo ricorderebbero, mentre nelle storie raccontate dai giornali i padroni di casa non ricordano nulla. E poi l’utilizzo del cloroformio prevede un contatto ravvicinato con la vittima, che comporterebbe il rischio di svegliare il soggetto e i suoi familiari; rischio che comprometterebbe la possibilità di agire indisturbati. A ciò è da aggiungere che le forze dell’ordine, che spesso sono anche tra i maggiori sostenitori della ipotesi della “rapina tramite narcosi”, non hanno mai trovato traccia di queste fantomatiche bombolette».
ATTENTI AL PROFILER
Se nell’interessantissimo volume si spiega quando e perché non sempre si deve credere ai testimoni oculari e della leggenda dell’occhio rivelatore (in cui resterebbe impressa l’ultima immagine vista, quindi dell’assassino), la parte più interessante arriva sul profiling, che negli ultimi anni ha riempito tribunali e tv di esperti in materia: «Secondo uno studio dell’FBI, relativo a 192 casi in cui fu adoperato il profiling, solo 88 furono risolti. Di questi 88, i profili furono essenziali nell’identificazione del criminale nel 17% dei casi. Se queste cifre sono esatte, questo indica che nella realtà il profiling è dirimente approssimativamente nell’8% dei casi in cui viene utilizzato. Secondo un altro autore, Copson, l’uso del profiling ha successo solo nel 3% dei casi in cui viene applicato. Un range tra il 3% e l’8% è un tasso di successo piuttosto modesto. Contrariamente agli entusiasti sostenitori del profiling in televisione, dunque, questa tecnica si rivela, nella realtà, sostanzialmente inefficace. I profilers producono quello che viene definito “Effetto Barnum” che consiste nel fare affermazioni circa un soggetto che si adattano a un grande numero di soggetti a causa della loro genericità. La maggior parte dei profiler infarcisce le proprie previsioni di affermazioni tanto nebulose da essere praticamente indimostrabili (“Il killer ha problemi irrisolti di autostima”), tanto generiche da potersi applicare pressoché a chiunque (“L’assassino ha dei conflitti con i familiari”), o fondate su dati riguardanti la probabilità di base della maggior parte dei crimini (“L’omicida probabilmente ha abbandonato il corpo vicino a uno specchio d’acqua”). Poiché molte di queste previsioni sono difficili da confutare o comunque sono destinate a cogliere nel segno a prescindere da chi sia l’autore del reato, i profiler potrebbero sembrare incredibilmente precisi. In realtà, i profili non sono considerati da molti psicologi e psichiatri una tecnica scientifica e il suo valore investigativo non sembra rigorosamente fondato».
Gigi Montero
IL LIBRO:

Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani ripartono dall’ultima notte, in “Accadde all’idroscalo”, per raccontare cosa successe davvero il 2 novembre 1975
ROMA
Di loro ce n’eravamo occupati già una volta, quando il giornalista investigativo Fabio Sanvitale (nella foto in alto) e il criminologo Armando Palmegiani, dipanarono i misteri sulla morte di Alois Estermann, della moglie Gladys Meza Romero e del vicecaporale Cédric Tornay, il caso noto come il delitto del Vaticano del 4 maggio 1998. Lo fecero nel libro “Sacro Sangue – Storie di svizzeri, menzogne e omicidi” edito da Sovera. Ora la coppia esperta in gialli di cronaca fa un passo decisamente più indietro nel tempo, andando a cercare di chiarire le verità mai dette sulla morte di Pier Paolo Pasolini, morto il 2 novembre 1975 e per il cui omicidio fu condannato, com’è noto, il reoconfesso Pino Pelosi. Com’è altrettanto noto non tutti hanno creduto a questa versione. E trent’anni più tardi fu lo stesso Pelosi a dire che le cose erano andate assai diversamente. In “Accadde all’idroscalo – L’ultima notte di Pier Paolo Pasolini”, edito ancora da Sovera, Sanvitale e Palmegiani fanno anzitutto le pulci alle versioni di Pelosi. E riscontrano ben 43 errori. Non cose da poco. Abbiamo incontrato Fabio Sanvitale, cui abbiamo chiesto i risultati della loro personale ricerca.
A oltre quarant’anni di distanza un libro riapre il caso sulla morte di uno dei più celebri poeti, scrittori e registi italiani. Una ricostruzione minuziosa che porta nuove persone sulla scena del crimine e racconta fatti del tutto inediti
Allora Fabio, partiamo dagli errori di Pelosi. Quali sono i più grossolani?
«Pelosi si contraddice continuamente su aspetti centrali della storia: a seconda del suo interlocutore, dice che s’era accorto che li seguivano oppure no, che gli hanno detto di buttare l’anello, che ha perso l’anello, che gli hanno preso l’anello…sono solo alcuni. Queste 43 bugie, illogicità, inverosimiglianze lo rendono un teste del tutto inattendibile. In realtà i suoi abiti erano pochissimo sporchi di fango, Pasolini invece era ridotto uno straccio. Era facile capire fin dal 1975 che Pelosi era stato solo uno spettatore dell’omicidio».
Chi c’era con Pelosi quella notte?
«Nella nostra indagine siamo ripartiti da un’inchiesta del 1976 che fu frettolosamente archiviata dalla magistratura. Il carabiniere Renzo Sansone si era infiltrato in una bisca del Tiburtino, nella quale due ragazzini si vantavano di aver ucciso Pasolini. Sansone si fece raccontare la cosa, in pratica una confessione. Nella nuova inchiesta del 2010-2015 i carabinieri hanno poi individuato anche il nome del terzo ragazzo che era con loro. Almeno questi tre nomi, oggi, li abbiamo. E sono nel libro».
Quali sono i documenti inediti che avete ritrovato?
«Sono foto della scena del crimine, il nome dell’informatore di Sansone, fotografie dei ragazzini. Consentono di precisare meglio la nostra indagine».
Gli aggressori giunsero già armati? Se sì, cosa indica?
«Cambia molto. Le armi usate contro Pasolini erano d’occasione, prese sul posto. Questo indica la non volontarietà di uccidere, ma “solo” quella di pestare. C’è una bella differenza! Come faccio a pensare a un delitto di Stato, come fanno alcuni, se non mi porto nemmeno una pistola o un coltello per andare a farlo?»
Sostieni di aver trovato sorprendenti parentele di uno dei presunti aggressori. Un caso che, sostieni, andrebbe approfondito da un magistrato.
«Permettimi di lasciare la suspence su questo aspetto. Sì, c’è una parentela incredibile tra due personaggi di questa storia, uno molto noto e uno sconosciuto al pubblico, ma pure centrale. Lo scoprono i carabinieri nell’ultima inchiesta ma il magistrato non approfondisce. Invece secondo noi può aiutare a spiegare bene il movente che porta gli assassini sulla scena dell’Idroscalo e la concatenazione degli eventi».
Tempo fa emerse la testimonianza di Angelo Tajani, l’ex corrispondente de Il Giorno a Stoccolma, che riferì delle preoccupazioni di Pasolini. Le avete vagliate?
«Sì. Pasolini temeva per la sua vita già da un po’. Ma questo rientrava nel clima di quegli anni. La mattina del 2 novembre, non appena si diffuse la notizia del delitto, tutti pensarono che erano stati i fascisti. Era logico. Poichè non abbiamo trovato traccia del fatto che lui sapesse chissà quali segreti di Stato, crediamo che Pasolini si riferisse a questo, al fatto che il clima nel Paese si era totalmente imbarbarito, che la società si stava disgregando e c’era sempre più violenza inutile, di cui sapeva perfettamente di poter diventare un bersaglio mobile».
Negli ultimi anni si è parlato di un capitolo sottratto di Petrolio, il libro che Pasolini stava scrivendo e che potrebbe aver costituito il movente del delitto. Che ne pensi?
«Io e Armando Palmegiani siamo totalmente convinti che sia una bufala. Da “Petrolio” mancano molti capitoli, perché proprio il numero 21 dovrebbe essere così importante? E poi, scusate, mancano le parole del capitolo 21? Ok, ma allora perché resta una pagina bianca con il titolo del capitolo? Ma che razza di furto è? È come andare a rubare una macchina e prendere solo gli interni lasciando sul posto la carrozzeria».
L’inchiesta di Sanvitale e Palmegiani non si ferma qui. Su internet, al sito omonimo del libro, accaddeallidroscalo.com, i due riportano foto dell’epoca, immagini dei luoghi e soprattutto alcuni documenti giudiziari sul caso, un archivio davvero interessante sia per chiarire la bontà dell’indagine giornalistica, sia perché ai lettori e ai posteri sia concesso di potersi informare su uno dei più noti delitti italiani. Un archivio che è ben lontano dall’essere concluso. Precisa infatti Sanvitale: «Mano a mano pubblicheremo tutti gli atti dei processi e dell’istruttoria del 1975. È una forma di memoria condivisa, pubblica, su un caso così importante, di cui crediamo ci sia bisogno». Come non condividere l’iniziativa?
Gigi Montero
IL LIBRO:
TUTTI I LIBRI DI FABIO SANVITALE E ARMANDO PALMEGIANI:

Come nacquero Frankenstein e il nobile vampiro

IL GIALLO MILANESE DI PAOLO BRERA

Lo scrittore e l’abisso

La mia verità su Don Euro

L’angelo nell’ombra

Una moto… fantasma alla barriera di Milano!

Verona, rapina e botte in stazione con una pistola giocattolo

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